domenica 14 marzo 2010

4. Il resto della notte e il “sonno antropologico” postmoderno

A causa della perdita di seduzione e di sacralità prima del progetto teologico cristiano, poi anche della sua secolarizzazione nell’utopia progettuale moderna, oggi viviamo fino in fondo le conseguenze dello sfondamento della cornice di senso elaborata all’interno della modernità. Così, in ambito storico politico, sembra essersi momentaneamente consumata la possibilità di qualsiasi narrazione di una missione redentiva o rivoluzionaria capace di coinvolgere l’umanità intera. Tramontato il confronto con l’orizzonte potenzialmente infinito di Dio ma anche con quello illimitatamente perfettibile dell’uomo, si è entrati invece a vivere, ridimensionati, più in una prospettiva post-storica, post-metafisica, post-teologica, post-politica e infine anche post-umana. Infatti, quelle stesse idee che le avevano alimentate, una volta capaci di infervorare e motivare dal profondo, di animare seducendo intere generazioni e popoli, oggi annoiano come parole vuote che non rimandano più a nulla, come se fosse per ora calato il sipario su di un mondo intero arrivato al capolinea in quanto incapace di tener fede alle promesse ventilate. Come superare il lutto depressivo di tali universi esistenziali decaduti capaci di suscitare per ora solo “passioni tristi” o una noia mortale? All’interno del pensiero postmoderno c’è chi ha provato residualmente a rilanciare in un nuovo possibile chance, quella della natura benedetta e della “notte salva” come definitivo ri-velamento, cioè come definitiva chiusura serena, oltre ogni illuminazione e rivelazione dis-velante, per riagganciare la vita così com’è, la “vita nuda”, senza più la percezione di scarti e omissioni destabilizzanti (Agamben 2002, riprendendo una famosa intuizione di Benjamin). Una volta sospesa qualsiasi pulsione al mascheramento essenziale in risposta alla domanda autoreferenziale “chi è l’uomo?”, si è provato di perdersi nel “silenzio sottile” e nel buio residuale della notte oscura come ultima forma ancora pensabile di beatitudine mondana. L’estremo tentativo di un nuovo incanto verso una natura vocata pacificamente al tramonto e alla riconsegna incondizionata al Chaos in quanto destinale apertura e ri-generazione illimitata di ulteriori possibilità esistenziali. Un velo di silenzio sembra essere sceso sul “clamore dell’essere”, mentre l’ultima grande scommessa sembra essere quella di riprovare per l’ennesima volta a riazzerare lo scarto tra l’albero della conoscenza e quello della vita, a favore di quest’ultimo, contro la coscienza paralizzante dello smacco, del fallimento e della gettatezza, oltre qualsiasi forma di mediazione riflessiva. La vita la si vuole ripercepire soltanto come spontaneità, come durata pura senza più scissure e discontinuità.
Ma all’atto pratico cosa significa e come si sta realizzando tutto ciò? Al di là della indecidibile querelle se l’attuale nichilismo1 rappresenti o meno la malattia o la possibile soluzione del nostro tempo, di fronte a tale rivolgimento epocale, continua a permanere il malessere dovuto a uno stato di incertezza e di crisi causato dalla apparente perdita della possibilità di una distinzione univoca e disambiguante tra sfondo e primo piano, tra ciò che ha ancora valore e ciò che è superfluo. Per questo motivo, la cassetta degli attrezzi a disposizione del soggetto postmoderno deve essere preparata per affrontare l’emergenza sempre incombente dovuta a uno “stato di eccezionalità” percepito come permanente. L’orizzonte condivisibile di una verità stabile è oramai tramontato e ha lasciato piuttosto lo spazio a circoscritti “effetti di verità” occasionali, più in linea con una prospettiva interpretativa incerta, obbligata a confrontarsi a partire da una apertura globale come mai in passato si era verificata2. La costruzione di un soggetto forte, autonomo, capace di disciplinare razionalmente la propria vita in tutte le sue forme rimane per ora un ricordo lontano. In mancanza di ulteriori regole universalmente valide e condivise tramite le quali normalizzare le proprie decisioni, si è preferito optare per l’emergenza di un soggetto destrutturato, dissociato, meglio preparato per affrontare strategie decisionali elastiche, veloci quanto improvvise, dovute a un contesto sempre più mutevole e imprevedibile. Il caos quotidiano diviene più gestibile attraverso la manipolazione di agili mappaggi esistenziali impliciti a disposizione di una intelligenza flessibile, capace di ristrutturare velocemente le proprie griglie interpretative e di riorganizzarsi funzionalmente e pragmaticamente nel minor costo e tempo possibili secondo necessità. Tale sapienza i greci l’avevano definita come phronesis, cioè sapienza pratica in grado di cogliere nel modo opportuno l’attimo, il kairos, soltanto lontano parente del romano carpe diem. Insomma l’intelligenza di cui oggi si ha bisogno è quella creativa, capace di inferire in tempo reale comportamenti nuovi per fronteggiare l’imprevisto, l’“ospite inquietante” (Galimberti 2008) sempre alla porta. La saggezza pratica sta proprio in questa duttilità funzionale agevolata da una preventiva destrutturazione organizzazionale. Si preferisce insomma tornare a confidare più sulle proprie dotazioni “naturali”, sul proprio istinto piuttosto che su modalità di analisi inferenziali riflessive e astratte difficili e impegnative da elaborare, riecheggiando in questo le famose “ragioni” del corpo di nietzschiana memoria. Così, ci si affida piuttosto a programmi procedurali impliciti, cioè a capacità di calcolo e di previsione semplici, malleabili, delegate ai livelli subcoscienti e sub-simbolici del soggetto. Tornando al sistema filosofico heideggeriano prima visto, è in questo senso che si può ora parlare di perdita o “assenza di mondo” (weltlosigkeit), inteso come dimensione culturale, artificiale condivisa universalmente a favore invece di una dimensione antropologica più basilare e affine alle risposte riflesse di un animale al proprio ambiente (umwelt). Allo stesso tempo, venuta meno la rete di contenimento simbolica offerta da un sapere e da un linguaggio altamente strutturati e condivisi, ci si trova sempre più soli per fronteggiare un disordine anonimo, assimilabile sempre più a un dissonante rumore di fondo non facilmente riducibile significatamene. Così, per difesa, si ricorre di frequente a un aumento dell’isolamento e della dissociazione oltre che a mettere in atto potenti filtri percettivi, prediligendo la formazione di ambienti chiusi rassicuranti e protettivi caratterizzati nel loro interno da regole chiare e distinte. Si assiste così a una naturale tendenza difensiva sfociante in una chiusura e in una delimitazione di campo e di interessi specifici. In questo senso a fronte di un numero sempre crescente di possibili esperienze nuove, spesso però destabilizzanti, si preferisce ricercare più quelle informazioni confermanti le proprie posizioni, con l’effetto di iperspecializzarsi localmente. Così sembra che la massima apertura possibile sia sostenibile solo al prezzo di una concomitante chiusura attentiva e percettiva. Mentre l’irriducibile varietà dell’esperienza, nella sua irrisolvibile incoerenza, impone la costruzione di nicchie simboliche di senso, circoscrivendo così drasticamente la propria sfera di frequentazioni. A quanto sembra, questa società globalizzata sembra favorire la selezione di strategie isolazionistiche, contribuendo così a accentuare ulteriormente la naturale tendenza biologica incline a una chiusura organizzazionale già predisposta di suo per una apertura selettiva molto rigida e severa. Per questo motivo, almeno da un punto di vista della coscienza riflessiva, l’esperienza quotidiana viene sempre più affrontata soprattutto affidandosi autoreferenzialmente a una prospettiva strategica autocentrica e narcisistica, dove a contare ancora può essere la sola personale occasionale autoanalisi differenziale dei propri incomunicabili stati ideo-affettivi suscitati da un ambiente campionato, cioè catalogato a sua volta approssimativamente secondo le esigenze e i desideri del momento. Davanti alle importanti scelte esistenziali da fronteggiare bisogna fare i conti con sé stessi da soli, perché l’altro si dimostra essere comunque inaffidabile e esperienzialmente incompatibile rispetto le proprie specifiche problematiche personali. Così, si è costretti a improvvisare soluzioni nuove, a provare di affinare la capacità di ottimizzare al meglio le proprie limitate risorse rispetto alle esigenze contestuali e a escogitare volta per volta le regole e il senso da attribuire al contesto e a sé stessi. Il mondo si conferma essere nietzschianamente fiaba, cioè sempre più artificiale e inconsistente, casomai da assemblare costruttivamente a seconda della necessità. E le decisioni risultano essere più ancorate a delle tacite credenze soggettive, a delle provvisorie fedi interiori, al proprio sesto senso, piuttosto che a strategie razionali a lungo raggio. Inoltre, essendo scomparsa l’eventualità di una comunicazione dialogica complessa e astratta, spesso si ci si limita a lasciare tracce di sé stessi, espressioni pure però senza più un referente specifico. Un po’ come affidarsi al messaggio di un naufrago arrotolato dentro la bottiglia e affidato alla casualità delle correnti.
Volendo sintetizzare il quadro della situazione, le strade ancora percorribili per affrontare la complessità crescente del nostro mondo sono o di rilanciare ulteriormente in un “super/iper-uomo” portatore di un pensiero logico ancora più potente, capace di com-prendere il caos e il rumore di fondo per disambiguarlo attraverso efficaci riduzioni algoritmiche inaudite. In questo caso vanno sottolineate le per ora insormontabili difficoltà emerse all’interno del pensiero logico dovute alla scoperta dei suoi limiti costitutivi. Infatti, dovendo gestire in qualche modo la naturale incompletezza intrinseca di ogni sistema logico, si deve riuscire a rintracciare una soluzione per svincolarsi in qualche modo dalla necessità di una regressione infinita dei punti di vista onninglobanti, cioè neutralizzanti la paradossalità autoreferenziale rilevabile ad ogni precedente livello, come già era già chiaramente emerso a partire dal problema dell’insopprimibilità del negativo nella dialettica hegeliana. Oppure si va nella direzione di facilitare lo sviluppo di un “oltre-uomo” costitutivamente nichilista, che smetta di affrontare le questioni di senso sulla propria natura e sul mondo, svincolandosi così dall’autoriflessività logica. Questa soluzione sembra essere la via intrapresa dal soggetto postmoderno per neutralizzare le nefaste conseguenze della macchina antropologica moderna (p. 368, Foucault 1967). Si preferisce piuttosto affidarsi a una soggettività polimorfica, destrutturata, impersonale, raminga, facendo fede solo su quel livello minimo di coerenza interna giustappunto funzionale per risolvere al meglio problemi locali quanto occasionali sopravvenienti (vedi in questo caso gli studi di psicologia cognitiva inerenti il problem solving). Cioè, mantenendosi in uno “stato di eccezione” che si è fatto regola. Si genera così un soggetto “debole”, nomadico e anarchico che non ha la pretesa di avere soluzioni per tutto, ma che prova a entrare in risonanza e a armonizzarsi con le situazioni del momento tramite un lavoro di autoregolazione e autoregolamentazione continua. In questo, non disdegnando di mantenere un atteggiamento poco polemico, affatto arrogante verso l’altro che lo porta a prediligere all’occorrenza, in particolare in quei casi di pericolo sempre incombenti, atteggiamenti difensivi votati più alla chiusura autoreferenziale e casomai all’esodo, cioè alla disseminazione verso luoghi più ospitali e permissivi. Evitando comunque le regole dell’ingaggio e dello scontro frontale per un compromesso sempre ricercato. Almeno stando ai suoi effetti collaterali isolazionistici, la globalizzazione sembra alimentare le ragioni di coloro che vedono e sostengono una deriva antropologica autistica, solipsistica sempre più esplicitata. Ciò detto, non significa nemmeno che, arrivati alla condizione antropologica di “non persona” o meglio di “terza persona”, magari prevalentemente chiusa autisticamente, si debba essere costretti a appiattire la propria esistenza sul solo piano biologico della conservazione della vita e non si possa essere aperti alla ricerca di una nuova dimensione esistenziale che faccia intravedere nuove modalità di convivenza altruistica o empatica verso i propri simili. Solo avviene a un altro livello, quello della “nuda vita”. Ovvero saltando la dialogicità dell’Io-Tu e sospendendo di conseguenza tutte quelle regole e quelle logiche comuni di responsività e di reciprocità a essa connesse. Tutto questo nonostante non si riesca a dissolvere il dubbio che in fondo si possa trattare semplicemente di un incontro occasionale forse come tra due zecche cieche e sorde apparentemente felici di succhiarsi il sangue, finché il meccanismo o il gioco funzionano.

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