martedì 16 marzo 2010

6. Navigare dopo il resto della notte. La nuova Babele caotica oltre il dionisiaco orgiastico

Che fine ha fatto la soggettività nell'era della globalizzazione, o meglio come ne è stata influenzata? Con il termine glocale si è provato a contenere la polarità di una società globale strutturata in un qualche modo anarchicamente e rizomaticamente e un individuo proteso a difendere i propri interessi particolari, provando a mettere in atto nuove strategie esistenziali per sopravvivere ancora davanti a tale vasto orizzonte esistenziale. Insomma si tratta di gestire il dilemma di essere parte di un sistema relazionale aperto, imprevedibile, proprio per questo altamente informante1, senza giungere per forza di cose a lasciarsi annullare del tutto in esso. In quanto si continua a rimane nonostante tutto quel “resto”2 indissolubile, in qualche modo ancora resistente, mai assimilabile fino in fondo al sistema. Comunque il mito della persona concepito nella modernità come protagonista indiscusso, sebbene del tutto attuale almeno rimanendo all'interno delle logiche della comunicazione e del potere a esse associato, non è più proponibile, se non come perversione o deviazione anomala3. Restano piuttosto le vestigia anonime di individui passati e presenti sempre più sconosciuti. In quanto di essi rimangono nella stragrande maggioranza dei casi solo delle tracce residuali sempre meno attribuibili o riconducibili ai legittimi proprietari. Piuttosto a parlare rimangono solo le opere postume. Un po' come se ci si chiedesse chi ha costruito le piramidi. Sarebbe del tutto inutile e ozioso. Oggi le piramidi come porta verso l'assoluto e il cielo sono state sostituite da internet. L'immensa costruzione informatica a disposizione del mondo intero, costruita grazie alle risorse di milioni, anzi miliardi di soggetti che rimarranno alla fine per sempre sconosciuti. Nonostante, anzi, proprio in virtù di tutte le innumerevoli testimonianze sparse lasciate sottoforma di storie personali documentate, foto, filmati, saperi. In fondo basta pensare un attimo alla quantità spropositata dei video del tutto anonimi rintracciabili su Youtube. Reali eppure con la sensazione di essere finti allo stesso tempo4. Ma ciò che conta è la loro esistenza e disponibilità per qualcuno. Alla fine però a essere mutato è il rapporto con le vecchie forme di riconoscimento, di imputazione e di responsività. In fondo è come essere una goccia d'acqua in mezzo all'oceano. Niente più, niente meno. Di per sé importante per la fisionomia del tutto, ma affatto visibile. Nonostante il tentativo pressoché inutile per esempio di 350 milioni di utenti su Facebook di preservare la propria dimensione privata pubblicando una marea di foto, provando a salvare la propria individuale storia. Comunque, anche all'interno di questa prospettiva le posizioni non si sono conciliate né pacificate del tutto. Piuttosto si sono accentuate ancor più le divergenze. La presenza e l'influenza dell'alterità è in un qualche modo sempre più dominante. Anche se il rapporto di opposizione dialettica tra simili in lotta tra loro non avviene più direttamente. In quanto il confronto è sempre più mediato dal mezzo e dalla distanza. Posti all'interno di uno spazio transizionale infinito, ci si confronta come in una sorta di agorà virtuale dove è possibile sospendere il dialogo in ogni momento o ancor più confrontarsi a partire dalle semplici tracce sparse di un umanità dissoltasi o privatasi. Piuttosto prevale un confronto virato solipsisticamente, in questo senso più vicino all'idea di autorganizzazione5 funzionale e creativa, in cui non ci si espone mai direttamente. In ogni caso si continuerà a prendere posizioni, a dare voti e pareri, mantenendo un anonimato coatto, un po' come accade nell'urna democratica estesa però a un livello esponenzialmente più vasto. Almeno fino a un certo punto, chiamarsi Caio o Sempronio che differenza potrà mai fare. Questa posizione è stata recepita soprattutto da quei movimenti anarco-collettivi tipo i Luther-Blisset in passato e i Bartleby oggi. La globalizzazione ha fatto saltare dall'interno il teatro della mente cartesiano6, proprio per averlo portato alle sue estreme conseguenze. Tutto dipende dai punti di vista. La platea si è svuotata degli spettatori reali. Il buco alla serratura, una volta aperto verso un mondo circoscritto e ora rivolto verso l'illimitato, ha imposto un soggetto più astratto, capace di gestire una quantità enorme di informazioni complesse altamente codificata e filtrata dal mezzo tecnologico. Alla fine l'emozione è sempre più mediata e filtrata, tradotta, ricreata e riproposta in modi prima impensabili... Comunque per ritornare a questo nuovo possibile attore postcartesiano, non c'è più lo spazio per un soggetto personale rivendicativo. Oggi internet sta imponendo un metalinguaggio in cui i soggetti sono sempre più ridimensionati, periferici e lontani. Cambia anche il modo di concepire le relazioni sempre più puntuali, occasionali e allo stesso tempo meno responsabilizzate. Vissute in modo più individuale e solipsistico. La globalizzazione ha cambiato il modo di vivere lo spazio tempo. L'identità si è fatta diffusa, impalpabile, in qualche modo incomunicabile, misteriosa e sconosciuta allo stesso tempo. In quanto viene a mancare uno specchio condiviso con cui confrontarsi e riconoscersi. Almeno fino a un certo punto. Lo spazio di internet è divenuto piuttosto uno spazio transizionale, cioè uno spazio espanso in cui è piuttosto possibile sperimentare un tempo ludico, ricreativo e creativo tout court. Anche perché le informazioni disponibili sono praticamente illimitate. Le possibilità di scambio e di confronto pure. Sebbene nelle modalità sopradette. Così l'identità determinata e statica non ha più senso. Ci si può solo perdere in una dimensione nomade e raminga. In un flusso continuo. Non senza aver prima appreso l'arte di navigare in un mare tanto vasto. Pena il naufragio7. Tale confronto è possibile solo tendendo verso un'identità infinità, però non nel senso di inglobare l'altro divenendo l'altro, ma al contrario abbandonando tale pretesa. Casomai acquisendo all'occorrenza una nuova inaudita capacità di adattamento e di accoglienza. Avendo fatto spazio, anche grazie alla scelta di essersi equipaggiati di un bagaglio leggero, poco ingombrante però massimamente versatile. In un qualche modo lasciando perdere l'idea di un mondo pacificato e riconciliato, come auspicato in passato da tante religioni o sistemi filosofici. No, non si tratta di tendere verso una babele armonica, tutt'altro. In un certo senso si va a entrare in un ulteriore livello di caos mai prima prodotto. Piuttosto bisogna imparare a gestirlo e a conviverci, non rifiutando il dissidio, il disarmonico e il dissonante. Ciò è possibile innanzitutto spogliandosi, denudandosi fino al grado zero di significazione, al grado zero della soggettività, al grado zero della rappresentazione e del linguaggio. Questo è un possibile senso da attribuire al compimento nichilistico. Non per arrivare al niente o al nulla assoluti, ma per costituirsi come pura eccezionalità momentanea, come simbolo8 istantaneo votato al “presentismo” più radicale. Così da riuscire a saper in qualche modo fronteggiare qualsiasi evento nuovo, però nutrendo la sensazione di non essere al momento in grado di fare nulla. Come si fosse né carne né pesce. Tutto ciò però non prima di essersi in qualche modo affrancati dai lacci di un vitalismo cieco e orgiastico della nuda vita, capace di possedere da tergo se non lo si affronta e lo si contrasta in qualche modo9. Piuttosto si tratta di imparare a essere ogni volta in qualche modo strateghi di sé stessi. Pronti a nascere e morire nella frazione di un secondo. Quando non si decide addirittura di diventare artefici di tale processo accelerandolo volutamente. Emergentismo puro. Sospesi tra l'essere informi e il prendere forma. Il più vicino possibile alla vita nuda e allo stesso tempo sapendo di indossare una maschera transitoria quanto effimera. Insomma di incarnare un simulacro identitario e di essere solo di passaggio. Non per questo però senza essere comunque in grado di far sentire la propria voce e di influire in qualche modo in tale processo di solito al lavoro silenziosamente da tergo. Si potrà così ancora tentare di ricostruire una storia, una narrazione, individuare delle inclinazione e delle ricorrenze, ma fino a un certo punto. In questo modo si prova a eludere l'arroganza narcisistica di voler tutto assoggettare, inglobare, possedere, incamerare. Perchè si è consapevoli di non poter possedere nulla... nulla ci appartiene. Siamo solo parte di qualcosa di più grande che in qualche modo ci sovrasta e ci predetermina. Volenti o nolenti. Ci piaccia o no. Senza possibilità di appello. Almeno per ora. Rimane comunque lo sdegno, almeno se si accetta di non dare un senso compiuto, di non accettare il gioco come fosse solo un destino ineluttabile alla fine positivizzato attraverso delle strategie di adattamento non selettivo e l'abbandono sistematico, passivo a esso. L'alterità non va negata, ma riconosciuta pienamente senza però arrivare per forza di cose a identificarvisi totalmente. Senza pacificarsi al suo interno lasciandosene passivamente assorbire e annullare. Piuttosto si prova a esserne la resistenza locale, seppur anonima e sconosciuta. Ma non per questo meno funzionale al sistema tutto. L'alienazione insomma rimane irricomponibile e in qualche modo costitutiva. La scissione pure. Sebbene vengano traslate a un ulteriore livello10. Si riconoscono le influenze e le similitudini, si potrebbe dire le analogie, ma anche le differenze ineliminabili. In qualche modo noi siamo il negativo di quell'alterità e tale rimaniamo, senza arrivare a nessuna sintesi pacificatoria. Rimane la consapevolezza che si è xenos, hostis a partire da sé stessi. Si accoglie, si apre le porte sapendo però dei rischi mai eliminabili. Ma non si può fare altrimenti.
In questo modo ci si va a situare nel punto tangenziale di sospensione tra biòs e zoé, tra soggetto vivente determinato e “vita nuda”. Si può ancora parlare di soggetto, però minimo, spogliato di tutto. Una sorta di kenosis non più solo sacrificale ma rigeneratrice almeno fino a un certo punto. Insomma ci si avvicina sempre più a un soggetto al suo grado zero. Un a-soggetto o forse meglio un ur-soggetto, in quanto ulteriore articolazione semantica attualizzata di quell'oltre uomo, übermensch, di nicciana memoria. Sebbene depotenziato, però ancora in gioco non senza una forte carica ironica per la consapevolezza tragica ma anche comica della sproporzione rispetto l'assurdo infinito davanti. Se il bambino eracliteo era meravigliato e affascinato dalla visione della grandezza del kosmos11, qui ci si meraviglia piuttosto dell'entità del caos. Non smettendo affatto di pensare che il caos è 'na brutta bestia, una difficile gatta da pelare. Insomma si continua a giocare con il fuoco. Con la possibilità del disastro sempre presente. Se si continua a raccontarla è perché è andata miracolosamente bene ancora una volta. O forse è andata male. Chi lo può effettivamente stabilire definitivamente. Il mostruoso, il deinon, è lì davanti. Impossibile sottrarsi al confronto. Si può solo mettersi in gioco ancora. Però lasciando perdere le celebrazioni, la ri-conoscenza e le com-memorazione. Al limite ci si può soffermare a catalogare l'esperienza, limitandosi alla sua indicizzazione, per attestarne la possibilità, l'esistenza nuda... chissà. In fondo come poter aspirare a acquisire un criterio stabile per selezionare ciò che deve essere salvato, conservato, se la categoria dell'utile si è fatta sempre più aleatoria e imponderabile. Basti pensare al momentaneo fallimento del pensiero utopico o alle conseguenze dell'autoritarismo religioso o politico passato e recente. Rimane comunque la visione immensa delle rovine poste dietro le proprie spalle. Resti per ora inutili, in qualche modo disumani. Macerie con le quali si può ricostruire ben poco12. Ma non per questo vanno dimenticati. Piuttosto è fondamentale la testimonianza di tale processo cronico. Di tale disfacimento senza sosta verso il disumano. È questo il tempo del “presentismo”, privato però della sua deriva ottimistica e speranzosa di salvaguardare la natura e l'uomo. In nome del principio di “responsabilità” o di “precauzione”, oggi tanto di moda. E se non ci fosse nulla da salvare? Chi è l'uomo, cos'è la natura. Chi saprebbe a tutt'oggi rispondere? Come identificarsi con un dispositivo rispetto a un altro se non in funzione delle circostanze presenti. Secondo la logica del momento opportuno, il kairos. Piuttosto non rimane che divenire puntualmente altro, con uno scarto assoluto tra il prima e il dopo, tra l'identità presente e quella passata o futura. Strutture, organismi leggeri e precari, perché altro non si è. Precari a vita. Senza più il bisogno di nasconderlo o di mascherarlo con sovrastrutture. Il tempo della fine è ora. È il tempo del soggetto minimo. In ogni singolo istante nasce già morto, ma non fa nulla, non può farci nulla. Può solo partecipare a tale sinistro gioco e viverlo ogni volta come fosse l'ultimo o il primo. Non fa differenza. Qualcosa di più grande continua a informarci, a darci vita, oltre la nostra volontà. Un qualcosa a sua volta iscritto in un tempo “profondo”13 riconducibile fino all'alba dei tempi. Non più storici ma naturali, ancor più cosmici, sempre che abbia ancora senso associarli al lemma tempo.

lunedì 15 marzo 2010

5. Buon senso

L’uomo come navigatore nella notte, per orientarsi, ha avuto bisogno di seguire le stelle fisse. Cioè di un sapere certo, epistemico, che lo sostenesse nel suo essere senza misura. Ma da tempo il cielo si è spento, non riflettendo più la luce degli astri. E il buio si è fatto ancora più buio. Eppure, anche senza attribuire più un senso di oggettività alle proprie rappresentazioni, alle proprie credenze, ai propri valori, alle proprie norme di vita, l’uomo non ha smesso di navigare. Il mondo come universo condiviso è tramontato e ha assunto sempre più quella forma nichilistica espressa già da Nietzsche come “fiaba” relativistica. Questo però non ha comportato affatto l’essere caduti nella totale mercè dell’imponderabile e dell’irrazionale. Nella notte del non sapere si è constatato di non essere ancora del tutto ciechi e ignoranti. Infatti, superato l’iniziale smarrimento si sono approntati nuovi strumenti di navigazione. Non potendo più fare affidamento su solide stampelle su cui poggiarsi, si è dovuto fare carico della responsabilità delle proprie decisioni. Ora spetta solo a lui rispondere agli eventi della vita e a tentare di regolamentare l’aleatorio. Ogni istante, percepito sempre più come unico e irripetibile, lo si prova a fronteggiare fiduciosamente affidandosi alla pur limitata dotazione di strumenti disponibili. Senza affatto misconoscere il loro carattere approssimativo foriero di un sapere sempre rivedibile, spesso insufficiente davanti ai dilemmi della vita, al caso e alla dissonanza cognitiva il più delle volte irrisolvibile costitutivamente. Però, non per questo in qualche modo aggirabile e sospendibile. Tale sapere, consapevole di essere figlio di una razionalità “debole”, va a rispondere a un modo di inferire conclusioni e decisioni sovrapponibile a quella “sapienza pratica” che gli antichi avevano definito phronesis, intimamente volta a cogliere la migliore opportunità possibile a partire dagli strumenti limitati a disposizione in un dato momento presente. Non senza espedienti (poros) e un pizzico di audacia e temerarietà. Insomma si dovrebbe arrivare a una “sofisticata abilità pratica incentrata su stratagemmi” occasionali, dettati più dall’informazione del caso che da modelli previsionali poco elastici. Certo, gli “schemi” di riferimento, da qualcuno definiti “modelli mentali” o anche “mappe cognitive”, non hanno più i crismi di un sapere completo da cui poter dedurre tutte le conseguenze in modo inconfutabile e prevedibile. Ma ci si affida più a un sapere induttivo quando non abduttivo, avvicinandosi alla razionalità strumentale della scienza. Un’induzione è, riprendendo il lessico filosofico, un giudizio sintetico. Il valore veritativo delle sue conclusioni non dipende solo da quello inferito formalmente dalle premesse iniziali, ma anche dall’esperienza, cioè dal contenuto, dalla semantica e dalla pragmatica, cioè dall’influenza del contesto. Nel pensiero induttivo, le conclusioni vanno oltre l’informazione data, ma, allo stesso tempo, escludono più possibilità di quante non escludano le premesse da cui derivano. Il pensiero abduttivo, che sta alla base del “problem solving”, è invece un particolare tipo di induzione più creativa, suppositiva, essendo maggiormente aperta all’interpretazione e all’insight, ma anche più incerta e spesso rischiosa. In tale forma inferenziale si deducono nuove cause non direttamente estrapolabili dalle premesse iniziali, ricavandole, per esempio, da circostanze simili oppure da analogie creative funzionali in quel particolare momento e così via. Infatti, quando vengono a mancare le informazioni di senso compiuto, la “verità” e la “realtà” vengono più emulate, cioè interpretate o spesso inventate verosimilmente a partire dalla personale esperienza. Nella realtà, a causa di una cronica, costitutiva incompletezza dell’informazione, agiamo di solito come se fossimo normalmente predisposti a una forma implicita di pensiero induttivo e ancor più abduttivo. Sapendo allo stesso tempo di essere spesso esposti al rischio di cadere vittime del cosiddetto “errore di conferma”. Infatti, nella pratica quotidiana sembra si cerchi di trarre conclusioni parsimoniose scegliendo fideisticamente solo quelle capaci di verificare positivamente le premesse. Cioè si producono conclusioni a partire da delle premesse magari le più probabili o semplicemente conosciute in precedenza (“euristica della rappresentatività e disponibilità”) o al limite perché intuite implicitamente, scartando di conseguenza tutto il resto. Ciò è agevolato anche dal fatto che quando ragioniamo siamo all’interno di uno sfondo sapienziale e di credenze generali più o meno condivise, le quali inevitabilmente vanno a modulare le nostre conclusioni. Ignorando però che l’omesso da tali strategie cognitive può essere a volte l’essenziale. Secondo questa prospettiva, la verità non emerge affatto come effetto residuale di tutte le falsificazioni possibili inferibili, come ci si aspetterebbe ad esempio da un meticoloso metodo induttivo “per eliminazione”. Ma solo dalle condizioni di possibilità e di esistenza, nel migliore delle ipotesi soltanto probabili in quanto precedentemente confermate. Contravvenendo alle regole di un empirismo negativo e scettico, si ripone più attenzione a una prevedibilità più retrospettiva che prospettica. Tale forma riduzionistica di pensiero induttivo è un ragionamento propositivo certamente economico, però altamente impreciso. Insomma “le conoscenze prevalgono sul principio di verità” (p. 240, Johnson-Laird 2008). Eppure, per molti, sembra essere la sola strada possibile per operare delle semplificazioni consistenti sulla massa preponderante di informazioni che ci provengono dall’esperienza. Pena il caos e l’intrattabilità dell’informazione. Comunque, non essendoci data la possibilità di trovare lungo il cammino la verità già bell’e fatta o comunque inferibile confidando sui soli strumenti logici, non possiamo far altro che affidarci ai contenuti semantici specifici, alla psicologia individuale, alle variabili soggettive, emozionali, motivazionali, contestuali, con lo scopo però di trovare nuove scorciatoie ancora più significative e funzionali. Così, per rimediare alle naturali distorsioni prospettiche dovute spesso all’influenza implicita dei propri desideri, delle proprie emozioni e del contesto bisogna predisporsi a saper sottoporre il proprio pensiero a una verifica empirica indiretta più esaustiva e rigorosa. In particolare per escludere almeno l'impossibile, lasciando comunque aperti tutti gli spettri di possibilità inferibili. Anche nel saper indovinare cause o prefigurare scenari inediti può esserci del metodo. Appoggiandosi a certa cultura del “sospetto”, potrebbe essere di aiuto prendere sempre più coscienza della propria cecità sia retrospettiva che previsionale, responsabile della cosiddetta “fallacia narrativa”. Innanzitutto sviluppando una adeguata “metacoscienza prospettica” basata sulla consapevolezza autoreferenziale di non sapere abbastanza. A partire da ciò, potrà seguire una serrata analisi critica delle proprie credenze su sé stessi, in particolare quelle inerenti le presunte abilità nel gestire l’imponderabile. Allora forse ci si potrà adoperare per arrivare a un sapere capace di compensare in parte la propria opacità epistemologica e la conseguente imperizia. Soltanto quando si smetterà di confidare fideisticamente sulle sole configurazioni mentali passate, ci si potrà concentrare empiricamente sulla realtà, dimostratasi nella sequenza cronologica dei singoli eventi unica e irripetibile, sottraendosi così alla morsa di una routine ottusa quanto irrealistica. Se si riconoscono i propri limiti cognitivi, ma ancor prima ontologici, dovrebbe risultare naturale approntare nuovi sistemi di indagine e di controllo magari non troppo costosi, così da rimanere sempre vigili. Innanzitutto allenandosi a gestire la sfaccettata complessità sommersa che ci costituisce dal profondo. Ridimensionando la propria “arroganza epistemica” a favore di un approccio più umile, si potrebbe pervenire a un ulteriore livello coscienziale capace in qualche modo di ottimizzare dall’“alto” la propria istintiva, pseudo-razionale “visione cieca”. Magari provando a perseguire un nuovo equilibrio tra i preponderanti processi impliciti (semi-)automatici e la limitata attenzione vigile di cui disponiamo. In questo caso, il pensiero abduttivo e più in generale induttivo, se adeguatamente esposto all’esperienza controfattuale, potrebbe essere ottimizzato e reso più efficace nel suo aspetto revisionale e di conseguenza previsionale. Unicamente a queste condizioni si può tentare di approntare velocemente nuove strategie inferenziali, un poco più costose, però in grado di operare velocemente una efficace ristrutturazione cognitiva capace di falsificare le precedenti credenze acquisite. Insomma è necessario essere conformi a dei criteri veritativi, ma è ancor più essenziale esporsi alla falsificazione. Solo così si può far fede a una più complessa e raffinata metodologia induttiva capace di formulare nuovi algoritmi riduzionistici includenti sempre più la variabile casuale, così da limitare il più possibile i rischi a essa connessa. Per esempio recuperando quel metodo per “esclusione” prima menzionato, oppure andando a sondare quelle possibilità meno prevedibili, intuitivamente scartate da tutti quei processi mnemonici impliciti, eppure in linea di principio possibili. Infatti, per quanto improbabile, la “verità” dovrà pur essere allo stesso tempo quello che resta di non ancora falsificato e/o di non ancora pensato e inventato.
Da un punto di vista etico, se la realtà ha perduto il suo valore di oggettività non può più essere considerata incondizionatamente normativa1. Un conto è la descrizione dei fatti, un altro è il ricavarne deduttivamente delle proposizioni valoriali. Dall’indicativo non si può più necessariamente passare all’imperativo e al dover essere condizionale. Anche in questo caso non siamo di fronte al buio totale. Infatti, di fronte all’emergenza dominante, ora è la regola a doversi adattare induttivamente e abduttivamente alla situazione del momento. In particolare, a essere cambiata è l’idea stessa di bene, non più soltanto definibile, nel suo valore deontologico e assiologico, secondo un modello di verità epistemico. Si potrà pure continuare a esprimere cognitivamente un’idea di cosa sia il bene, ma soltanto a partire da un ulteriore livello etico dinamico-pragmatico, dal quale confrontarsi anarchicamente ogni volta con l’eccesso della “vita nuda” nella sua eccezionalità. Confidando di trovare la misura giusta tra un mix di coerenza deontologica, sapere contestuale, consensuale e efficacia strumentale. Tra esperienza regressa e capacità adattiva presente all’ennesima potenza. Non senza incorrere nel rischio di essere tacciati da un osservatore esterno di incoerenza, dovendo rimanere in bilico tra metodologie epistemiche e non, tra teorie pseudo-realiste e dichiaratamente non realiste della verità. Infatti, all’interno di una concezione dinamica e politeistica dei valori, la verità non viene più considerata un valore oggettivo incondizionato e fondamentale rispetto ad altri, ma dovrà confrontarsi alla pari e a volte anche subordinarsi ad essi per il bene comune. Così, l’uomo della decisione razionale ipotetico-creativa insegue sempre la soluzione più propizia adattando volta per volta se stesso o la realtà secondo le circostanze, le possibilità e le forze in campo. Da vero stratega opportunista. Avendo appreso che basta un niente perché si scada nell’eccesso e nella dismisura o nel fuori luogo. A volte anche in modo irreversibile e irreparabile, senza ritorno. Ma non può esimersi di rischiare ogni volta tutto, confidando nella bontà del proprio corpo, del proprio istinto, in sé stessi, nel prossimo e nella cultura che lo ha preceduto. Però solo fino a un certo punto. Rimanendo vigile e guardingo, pronto a cambiare tattica al momento giusto, senza alcun rimpianto. Provando a calibrare il proprio agile sapere a seconda delle informazioni aggiuntive del momento. Spesso pur essendo consapevole di non poter subito giustificare razionalmente e cognitivamente le proprie decisioni e azioni. Nonostante il futuro non sia alla sua portata, non si è ancora consegnato del tutto all’irrazionalità assoluta del destino. Residualmente, esiste ancora una forma sotterranea, implicita di razionalità subliminale e diffusa, situata al limite tra soggetto e società civile, capace ancora di guidarlo in qualche modo, se allenata preventivamente a dovere, soprattutto nella creazione di recinti, di nicchie esistenziali dinamiche abitate da regole meno crudeli. Non accettando di essere in completa balia del caso, può così provare a costruire scenari alternativi meno nefasti, per quello che gli è concesso2. In particolare imparando a saper evitare ad arte l’incertezza assoluta negativa per quanto gli è possibile, esponendosi invece consapevolmente solo ai rischi dovuti a un’incertezza ancora ponderabile, foriera il più delle volte di piacevoli nuove opportunità. Secondo me, questo equilibrismo tra varie abilità e competenze procedurali, emozionali e cognitive acquisite sul campo, in parte sia implicitamente che esplicitamente, possono oggi definire l’idea di “buon senso”.
Come ultima analisi mi verrebbe da azzardare l’ipotesi che quanto detto finora potrebbe essere una delle possibili strade percorribili per ripositivizzare la nefasta chiusura autistica da più parti denunciata come trend sociale del nostro tempo postmoderno globalizzato. In particolare, attraverso l’abbattimento di quella “fortezza vuota” sostituita invece da agili difese selettive altamente adattive. Senza dover arrivare sistematicamente a demonizzare il caso tout court, ma provando piuttosto a farselo in qualche modo amico.

domenica 14 marzo 2010

4. Il resto della notte e il “sonno antropologico” postmoderno

A causa della perdita di seduzione e di sacralità prima del progetto teologico cristiano, poi anche della sua secolarizzazione nell’utopia progettuale moderna, oggi viviamo fino in fondo le conseguenze dello sfondamento della cornice di senso elaborata all’interno della modernità. Così, in ambito storico politico, sembra essersi momentaneamente consumata la possibilità di qualsiasi narrazione di una missione redentiva o rivoluzionaria capace di coinvolgere l’umanità intera. Tramontato il confronto con l’orizzonte potenzialmente infinito di Dio ma anche con quello illimitatamente perfettibile dell’uomo, si è entrati invece a vivere, ridimensionati, più in una prospettiva post-storica, post-metafisica, post-teologica, post-politica e infine anche post-umana. Infatti, quelle stesse idee che le avevano alimentate, una volta capaci di infervorare e motivare dal profondo, di animare seducendo intere generazioni e popoli, oggi annoiano come parole vuote che non rimandano più a nulla, come se fosse per ora calato il sipario su di un mondo intero arrivato al capolinea in quanto incapace di tener fede alle promesse ventilate. Come superare il lutto depressivo di tali universi esistenziali decaduti capaci di suscitare per ora solo “passioni tristi” o una noia mortale? All’interno del pensiero postmoderno c’è chi ha provato residualmente a rilanciare in un nuovo possibile chance, quella della natura benedetta e della “notte salva” come definitivo ri-velamento, cioè come definitiva chiusura serena, oltre ogni illuminazione e rivelazione dis-velante, per riagganciare la vita così com’è, la “vita nuda”, senza più la percezione di scarti e omissioni destabilizzanti (Agamben 2002, riprendendo una famosa intuizione di Benjamin). Una volta sospesa qualsiasi pulsione al mascheramento essenziale in risposta alla domanda autoreferenziale “chi è l’uomo?”, si è provato di perdersi nel “silenzio sottile” e nel buio residuale della notte oscura come ultima forma ancora pensabile di beatitudine mondana. L’estremo tentativo di un nuovo incanto verso una natura vocata pacificamente al tramonto e alla riconsegna incondizionata al Chaos in quanto destinale apertura e ri-generazione illimitata di ulteriori possibilità esistenziali. Un velo di silenzio sembra essere sceso sul “clamore dell’essere”, mentre l’ultima grande scommessa sembra essere quella di riprovare per l’ennesima volta a riazzerare lo scarto tra l’albero della conoscenza e quello della vita, a favore di quest’ultimo, contro la coscienza paralizzante dello smacco, del fallimento e della gettatezza, oltre qualsiasi forma di mediazione riflessiva. La vita la si vuole ripercepire soltanto come spontaneità, come durata pura senza più scissure e discontinuità.
Ma all’atto pratico cosa significa e come si sta realizzando tutto ciò? Al di là della indecidibile querelle se l’attuale nichilismo1 rappresenti o meno la malattia o la possibile soluzione del nostro tempo, di fronte a tale rivolgimento epocale, continua a permanere il malessere dovuto a uno stato di incertezza e di crisi causato dalla apparente perdita della possibilità di una distinzione univoca e disambiguante tra sfondo e primo piano, tra ciò che ha ancora valore e ciò che è superfluo. Per questo motivo, la cassetta degli attrezzi a disposizione del soggetto postmoderno deve essere preparata per affrontare l’emergenza sempre incombente dovuta a uno “stato di eccezionalità” percepito come permanente. L’orizzonte condivisibile di una verità stabile è oramai tramontato e ha lasciato piuttosto lo spazio a circoscritti “effetti di verità” occasionali, più in linea con una prospettiva interpretativa incerta, obbligata a confrontarsi a partire da una apertura globale come mai in passato si era verificata2. La costruzione di un soggetto forte, autonomo, capace di disciplinare razionalmente la propria vita in tutte le sue forme rimane per ora un ricordo lontano. In mancanza di ulteriori regole universalmente valide e condivise tramite le quali normalizzare le proprie decisioni, si è preferito optare per l’emergenza di un soggetto destrutturato, dissociato, meglio preparato per affrontare strategie decisionali elastiche, veloci quanto improvvise, dovute a un contesto sempre più mutevole e imprevedibile. Il caos quotidiano diviene più gestibile attraverso la manipolazione di agili mappaggi esistenziali impliciti a disposizione di una intelligenza flessibile, capace di ristrutturare velocemente le proprie griglie interpretative e di riorganizzarsi funzionalmente e pragmaticamente nel minor costo e tempo possibili secondo necessità. Tale sapienza i greci l’avevano definita come phronesis, cioè sapienza pratica in grado di cogliere nel modo opportuno l’attimo, il kairos, soltanto lontano parente del romano carpe diem. Insomma l’intelligenza di cui oggi si ha bisogno è quella creativa, capace di inferire in tempo reale comportamenti nuovi per fronteggiare l’imprevisto, l’“ospite inquietante” (Galimberti 2008) sempre alla porta. La saggezza pratica sta proprio in questa duttilità funzionale agevolata da una preventiva destrutturazione organizzazionale. Si preferisce insomma tornare a confidare più sulle proprie dotazioni “naturali”, sul proprio istinto piuttosto che su modalità di analisi inferenziali riflessive e astratte difficili e impegnative da elaborare, riecheggiando in questo le famose “ragioni” del corpo di nietzschiana memoria. Così, ci si affida piuttosto a programmi procedurali impliciti, cioè a capacità di calcolo e di previsione semplici, malleabili, delegate ai livelli subcoscienti e sub-simbolici del soggetto. Tornando al sistema filosofico heideggeriano prima visto, è in questo senso che si può ora parlare di perdita o “assenza di mondo” (weltlosigkeit), inteso come dimensione culturale, artificiale condivisa universalmente a favore invece di una dimensione antropologica più basilare e affine alle risposte riflesse di un animale al proprio ambiente (umwelt). Allo stesso tempo, venuta meno la rete di contenimento simbolica offerta da un sapere e da un linguaggio altamente strutturati e condivisi, ci si trova sempre più soli per fronteggiare un disordine anonimo, assimilabile sempre più a un dissonante rumore di fondo non facilmente riducibile significatamene. Così, per difesa, si ricorre di frequente a un aumento dell’isolamento e della dissociazione oltre che a mettere in atto potenti filtri percettivi, prediligendo la formazione di ambienti chiusi rassicuranti e protettivi caratterizzati nel loro interno da regole chiare e distinte. Si assiste così a una naturale tendenza difensiva sfociante in una chiusura e in una delimitazione di campo e di interessi specifici. In questo senso a fronte di un numero sempre crescente di possibili esperienze nuove, spesso però destabilizzanti, si preferisce ricercare più quelle informazioni confermanti le proprie posizioni, con l’effetto di iperspecializzarsi localmente. Così sembra che la massima apertura possibile sia sostenibile solo al prezzo di una concomitante chiusura attentiva e percettiva. Mentre l’irriducibile varietà dell’esperienza, nella sua irrisolvibile incoerenza, impone la costruzione di nicchie simboliche di senso, circoscrivendo così drasticamente la propria sfera di frequentazioni. A quanto sembra, questa società globalizzata sembra favorire la selezione di strategie isolazionistiche, contribuendo così a accentuare ulteriormente la naturale tendenza biologica incline a una chiusura organizzazionale già predisposta di suo per una apertura selettiva molto rigida e severa. Per questo motivo, almeno da un punto di vista della coscienza riflessiva, l’esperienza quotidiana viene sempre più affrontata soprattutto affidandosi autoreferenzialmente a una prospettiva strategica autocentrica e narcisistica, dove a contare ancora può essere la sola personale occasionale autoanalisi differenziale dei propri incomunicabili stati ideo-affettivi suscitati da un ambiente campionato, cioè catalogato a sua volta approssimativamente secondo le esigenze e i desideri del momento. Davanti alle importanti scelte esistenziali da fronteggiare bisogna fare i conti con sé stessi da soli, perché l’altro si dimostra essere comunque inaffidabile e esperienzialmente incompatibile rispetto le proprie specifiche problematiche personali. Così, si è costretti a improvvisare soluzioni nuove, a provare di affinare la capacità di ottimizzare al meglio le proprie limitate risorse rispetto alle esigenze contestuali e a escogitare volta per volta le regole e il senso da attribuire al contesto e a sé stessi. Il mondo si conferma essere nietzschianamente fiaba, cioè sempre più artificiale e inconsistente, casomai da assemblare costruttivamente a seconda della necessità. E le decisioni risultano essere più ancorate a delle tacite credenze soggettive, a delle provvisorie fedi interiori, al proprio sesto senso, piuttosto che a strategie razionali a lungo raggio. Inoltre, essendo scomparsa l’eventualità di una comunicazione dialogica complessa e astratta, spesso si ci si limita a lasciare tracce di sé stessi, espressioni pure però senza più un referente specifico. Un po’ come affidarsi al messaggio di un naufrago arrotolato dentro la bottiglia e affidato alla casualità delle correnti.
Volendo sintetizzare il quadro della situazione, le strade ancora percorribili per affrontare la complessità crescente del nostro mondo sono o di rilanciare ulteriormente in un “super/iper-uomo” portatore di un pensiero logico ancora più potente, capace di com-prendere il caos e il rumore di fondo per disambiguarlo attraverso efficaci riduzioni algoritmiche inaudite. In questo caso vanno sottolineate le per ora insormontabili difficoltà emerse all’interno del pensiero logico dovute alla scoperta dei suoi limiti costitutivi. Infatti, dovendo gestire in qualche modo la naturale incompletezza intrinseca di ogni sistema logico, si deve riuscire a rintracciare una soluzione per svincolarsi in qualche modo dalla necessità di una regressione infinita dei punti di vista onninglobanti, cioè neutralizzanti la paradossalità autoreferenziale rilevabile ad ogni precedente livello, come già era già chiaramente emerso a partire dal problema dell’insopprimibilità del negativo nella dialettica hegeliana. Oppure si va nella direzione di facilitare lo sviluppo di un “oltre-uomo” costitutivamente nichilista, che smetta di affrontare le questioni di senso sulla propria natura e sul mondo, svincolandosi così dall’autoriflessività logica. Questa soluzione sembra essere la via intrapresa dal soggetto postmoderno per neutralizzare le nefaste conseguenze della macchina antropologica moderna (p. 368, Foucault 1967). Si preferisce piuttosto affidarsi a una soggettività polimorfica, destrutturata, impersonale, raminga, facendo fede solo su quel livello minimo di coerenza interna giustappunto funzionale per risolvere al meglio problemi locali quanto occasionali sopravvenienti (vedi in questo caso gli studi di psicologia cognitiva inerenti il problem solving). Cioè, mantenendosi in uno “stato di eccezione” che si è fatto regola. Si genera così un soggetto “debole”, nomadico e anarchico che non ha la pretesa di avere soluzioni per tutto, ma che prova a entrare in risonanza e a armonizzarsi con le situazioni del momento tramite un lavoro di autoregolazione e autoregolamentazione continua. In questo, non disdegnando di mantenere un atteggiamento poco polemico, affatto arrogante verso l’altro che lo porta a prediligere all’occorrenza, in particolare in quei casi di pericolo sempre incombenti, atteggiamenti difensivi votati più alla chiusura autoreferenziale e casomai all’esodo, cioè alla disseminazione verso luoghi più ospitali e permissivi. Evitando comunque le regole dell’ingaggio e dello scontro frontale per un compromesso sempre ricercato. Almeno stando ai suoi effetti collaterali isolazionistici, la globalizzazione sembra alimentare le ragioni di coloro che vedono e sostengono una deriva antropologica autistica, solipsistica sempre più esplicitata. Ciò detto, non significa nemmeno che, arrivati alla condizione antropologica di “non persona” o meglio di “terza persona”, magari prevalentemente chiusa autisticamente, si debba essere costretti a appiattire la propria esistenza sul solo piano biologico della conservazione della vita e non si possa essere aperti alla ricerca di una nuova dimensione esistenziale che faccia intravedere nuove modalità di convivenza altruistica o empatica verso i propri simili. Solo avviene a un altro livello, quello della “nuda vita”. Ovvero saltando la dialogicità dell’Io-Tu e sospendendo di conseguenza tutte quelle regole e quelle logiche comuni di responsività e di reciprocità a essa connesse. Tutto questo nonostante non si riesca a dissolvere il dubbio che in fondo si possa trattare semplicemente di un incontro occasionale forse come tra due zecche cieche e sorde apparentemente felici di succhiarsi il sangue, finché il meccanismo o il gioco funzionano.

venerdì 12 marzo 2010

3. Empatia incarnata

1. Sistemi auto poietici e organizzazionali
I sistemi viventi si relazionano al mondo esterno in virtù dell'interdipendenza tra la ricezione di impressioni e l'esecuzione di azioni. Operano regolazioni perché sono in grado di sentire, calcolare e agire ma non linearmente. Sviluppano cicli senso-motori – cicli percezione-azione. Dispongono di una struttura di interconnessione [per esempio la rete neurale cerebrale] tra organi di senso e organi effettori che, supportando un flusso circolare di informazione gli uni e gli altri, traduce la percezione di perturbazione in un'azione compensativa che modifica la percezione, riavviando il ciclo regolatore. (p. 47, Luisa Damiano, “Unità in dialogo”)

2. Co-evoluzione di sistemi auto-poietici a causa di fluttuazioni dissipative
La base teorica dell'idea di co-evoluzione risiede nel concetto di chiusura, che, nel contesto della descrizione dell'interazione tra sistemi auto-organizzatori e paesaggio ambientale, esibisce una delle sue maggiori potenzialità: portare sulla scena teorica la capacità dei sisteni autonomi di spezzare la causalità esogena. […] Si tratta di un meccanismo organizzazionale grazie al quale le azioni ambientali non possono esercitare un'azione diretta sui processi interni di un sistema autonomo, perché, se provocano la deviazione di uno o più componenti della dinamica globale, attivano un comportamento di auto-stabilizzazione. […] Se la fluttuazione non eccede la tenuta dei vincoli organizzazionali, induce l'emergenza di un pattern equilibratore: un assetto dinamico determinato endogenamente in grado di conservare la coerenza funzionale del sistema nelle mutate condizioni ambientali (p. 51, idem). (Confronta l'order for noise di Von Foerster e ancor più la complexity for noise di Atlan).
Nella cooperazione tra più sistemi autonomi interagenti tra loro e con l'ambiente si mantengono i singoli sistemi autonomi. Tra i vari sistemi autonomi ognuno innesca, ma non determina, cambiamenti nella dinamica dell'altro. Ognuno, finché mantiene l'organizzazione, sviluppa un decorso evolutivo compatibile con quello dell'altro. L'idea teorica che esprime al meglio i tratti del processo globale è la nozione di co-emergenza. In questo contesto essa designa un'evoluzione accoppiata che si realizza per interferenza e correllata emergenza, nel sistema autonomo e in quello ambientale, di patterns endogeni compatibili. L'idea è quella di evoluzione dell'ordine organizzazionale dovute all'insorgere di perturbazioni struttuali esogene che attivano riorganizzazioni endogene – regolazioni positive operate dalla chiusura – portatrici di salti di complessità organizzazionale (p. 51-3, idem).
Un anello organizzazionale, suscitando un comportamento emergente di auto-determinazione dinamica, produce un punto di vista cognitivo sull'ambiente. Genera una totalità organizzata che, in virtù di un'attività di auto-regolazione supportata dall'articolazione circolare dei suoi livelli organizzazionali, si accoppia co-evolutivamente con l'ambiente, trattando uno sfondo in sé indifferenziato di perturbazioni come uno scenario articolato di riferimento per le proprie interazioni – un mondo, dotato di regolarità e significato (p. 55, idem).

3. Neuroni specchio
Il concetto di autonomia non deve essere inteso in assoluto, né deve portare a una radicalizzazione di posizioni divergenti quali quelle di sistema-ambiente o di interno-esterno. Alla chiusura operazionale verso l'ambiente corrisponde piuttosto una apertura metabolico-energetica, necessaria per il mantenimento dell'autonomia del sistema autopoietico. Inoltre va ribadito che, anche da un punto di vista organizzazionale, sistemi accoppiati tra loro si influenzano reciprocamente seppur non linearmente. Cosi che la chiusura operazionale non andrebbe a precludere affatto una apertura proficua verso il milieu circostante. Sebbene “l'idea è quella di una comunicazione essenzialmente generativa, che non implica alcuno scambio di comunicazioni precostituite (p. 181, idem).
Recenti studi neuropsicologi sugli animali e sull’uomo, nonché ricerche sull’infant observation stanno facendo emergere piuttosto una certa propensione naturale alla “socialità” dell’essere umano che sarebbe predisposto e aperto fin dalla nascita per instaurare un proficuo scambio e una sincronizzazione innanzitutto incarnata con il mondo a esso circostante, ben prima dell'instaurarsi della coscienza. In particolare gli studi sui neuroni specchio hanno portato a sostenere l'esistenza di “un livello-base delle nostre relazioni interpersonali, costituito da un meccanismo di risonanza immediata non cognitivistico tra il [sè] e gli altri (p. 333, Neurofenomenologia, a cura di Massimiliano Cappuccio) che andrebbe a costituire la base neurale sulla quale instaurare poi tutti i successivi livelli di relazione interpersonale fino a quelli più complessi e astratti. Secondo Gallese: L'assenza di un soggetto auto-cosciente non preclude […] la costituzione di uno spazio primitivo sé/altro, caratterizzando così una forma paradossale di intersoggettività priva di soggetto (p. 200, Forme di vita n° 4). In questo modo si ipotizzerebbe la possibilità di un riconoscimento del pensiero e delle intenzioni altrui senza la mediazione della memoria di lavoro e di una memoria autobiografica rappresentazionale molto dispendiose in termini econonomici e più lente da un punto di vista pratico. Come invece si sosteneva all'interno della teoria cognitivistica della "Teoria della mente" (ToM) la quale dava per assodato la possibilità di una comprensione delle intenzioni altrui solo a partire da un riconoscimento cosciente mediato dalle facoltà intellettive alte. Invece, come sopradetto, oggi si sta piuttosto appurando l'esistenza di un livello "di rispecchiamento e di corrispondenza tra mondo interno (sapere cosa faccio [e perché] quando prendo una mela) e mondo esterno (vedere un altro che prende la mela)” precosciente. Comunque i due momenti di riconoscimento intersoggettivo non vanno considerati come opposti, ma sono invece da integrare in senso ontogenetico, facendo del primo, in quanto risonanza affettiva immediata, l'origine primitiva dell'altro, cioè la condizione necessaria per l'instaurarsi in un secondo tempo di una efficace e sofisticata ToM. Occorre cioè effettuare un passaggio importante, quello dal terreno condiviso, in cui si osserva un accoppiamento, una replica o equivalenza di azioni e emozioni tra l'io e l'altro più o meno passiva, all'ambito di situazioni più specificatamente empatiche, in cui il meccanismo diretto, prevalentamente percettivo, lascia il posto a un meccanismo indiretto e più attivo, che implica un intervento di mediazione tra l'io e l'altro, spesso non presentante un rispecchiamento totale tra i due, bensì uno scarto (p. 334. neurofenomenologia). Anzi proprio la mediazione della coscienza anche grazie alle facoltà linguistiche (vedi ad esempio le ricerche di Virno) andrebbe a innescare una sorta di negazione del livello mediato dalla reazione del "corpo vivo" nell'ottica di una ulteriore forma di riconoscimento intersoggettivo, distorcendo creativamente il precedente livello empatico immediato. Spesso non senza rinnegare o sospendere l'iniziale co-sentire originario per fini secondari. In questo modo il riconoscimento "naturale" verrebbe messo in discussione da una ulteriore forma complessa di riconoscimento mediato ad esempio dal pensiero proposizionale, dalle modalità di categorizzazione essenziali e non ultimo dalle abitudini culturali e sociali. Da un punto di vista più prettamente neurale è interessante confrontare la simulazione incarnata dell'altro operata dai neuroni specchio con la successiva modalità di simulazione incarnata però a un livello ulteriore teorizzata da Damasio (vedi circuiti simulativi del come sé) . Anche nell'ottica di una chiusura circolare tra attivazione button-up e successiva elaborazione associativa top-down discendente.

4. Sincronizzazione
Sebbene esistano delle predisposizioni naturali di risonza immediata come quelle scoperte grazie ai neuroni mirror e canonici (capaci di attivare aree motorie deputate all'azione alla sola vista di oggetti strumentali) è tutto il sistema nervoso neurale a essere predisposto all'accoppiamento regolativo delle perturbazioni sensoriali a significati operazionali portatori di azioni efficaci per la conservazione. Più in generale, i cicli della regolazione metabolica energetica, quelli dell'accoppiamento senso motorio e dell'ambiente, quelli dell'interazione intersoggettiva, coinvolgenti il riconoscimento del significato intenzionale delle azioni e la comunicazione linguistica (negli umani) intereagirebbero tra loro secondo più livelli cognitivi, sia impliciti che espliciti coscienti. Secondo Varela, l' “idea è quella di rapide e flessibili coordinazioni comportamentali neuronali – connessioni dinamiche a lungo raggio tra i neuroni – le quali raccolgono elementi distanti in unità funzionali coese, generate dall'assunzione da parte delle cellule neuronali di una medesima fase di oscillazione. […] [Varela] individua nei processi di integrazione neuronale il luogo di emergenza di forme soggettive transienti creatrici di mondi. Varela le pensa come micro-identità: unità cognitive fragili, contingenti, temporanee. Le qualifica come sé emergenti che esprimono possibilità contestuali d'azione sull'ambiente – prontezze all'azione. La loro auto-distinzione coincide con uno specifico trattamento cognitivo del paesaggio ambientale. L'attimo in cui si sollevano – per perturbazioni endogene o esogene – equivale nell'esperienza soggettiva al sollevarsi di un micro-mondo: un contesto situazionale correlato alla disposizione all'azione di cui è portatrice l'identità cognitiva supportata neuralmente. […] Sono soluzioni coincidenti con differenti configurazioni di attività, tra le quali il sistema oscilla brevemente, per poi assumere un definito pattern tra i possibili. […] Il sé emergente che Varela articola alle dinamiche neuronali è un attore cognitivamente intrinsecamente situato. È un'entità che, mentre si auto-definisce, opera selezioni sulle dimensioni ambientali accessibili, genera e proietta significati operazionali sul paesaggio ambientale, costruisce una scena significante e arredata di oggetti per le interazioni del sistema con l'ambiente. L'emergenza della sua (micro-)identità è indissociabile dalla strutturazione di un punto di vista sullo sfondo ambientale – un punto di vista generativo di un (micro-)mondo. […] Allacciata a configurazioni di attività neuronali che si strutturano e si destrutturano in una dimensione di micro-temporalità, l'identità individuale del conoscente si diversifica in un flusso di micro-identità cognitive punteggiato di vuoti – gli spazi dei breakdowns (p. 209-11, idem).
La mente radicalmente incorporata non abita lo spazio intraindividuale. Il suo luogo è questo: l'evolvere unitario di cervello e corpo, organismo e ambiente (p. 212, idem). Piuttosto emerge dal livello com-partecipativo tra individuo-tutto, tra sé-ambiente. Nel senso che entrambi i poli sono tra loro interconnessi e mutualmente influenzabili. La parte e il tutto interagiscono produttivamente, creativamente, coimplicandosi, senza ridursi l'uno o sull'altro.

5. Plasticità cerebrale
La plasticità cerebrale è l'indice di sincronizzazione dinamica sopportabile dalla rete neurale nell'accoppiamento di funzioni distinte, da quelle sensitive a quelle motorie e via dicendo. Essa esprime il livello di attunement, cioè di armonizzazione tra mente, cervello, corpo e ambiente di fronte a eventuali conflitti cognitivo-comportamentali imprevisti non immediatamente appianabili secondo gli schemi neurali fin lì elaborati. Tali dissonanze possono insorgere dall'interazione con un ambiente ambiguo spesso perturbante, o in virtù di una mancata coerenza nei-tra i vari livelli autorganizzazionali nell'elaborazione in parallelo di risposte. Quest'ultima eventualità causa l'insorgenza di un'ambivalenza valoriale nella selezione degli ipotetici scopi da perseguire, producendo come effetto collaterale paralisi e stress. Tale stallo può essere il motore di una profonda ristrutturazione organizzazionale tesa dialetticamente tra una prima fase destrutturante regressiva e un successivo momento elaborativo accomodante. Alla fine, se tutto funziona, si sfocierà in un ulteriore meta-livello capace di appianare tali dissonanze. In questo caso si accederà a configurazioni esistenziali in grado di incrementare la complessità del sistema se si riuscirà a implementare creativamente la formulazione di nuove risposte adattive idonee a contenere le precedenti perturbazioni. Oppure, in mancanza di ciò, si potranno indurre risposte votate piuttosto alla chiusura difensiva. In questa circostanza si privileggeranno strategie improntate all'evitamento delle problematiche incontrate con l'effetto di limitare l'eventuale potenziale sfera d'azione. All'atto pratico si arriva a una riduzione di mondi possibili e, nei casi più critici, a produrre risposte altamente conservative e ripetitive non di rado disadattive.

6. Empatia
Più in generale, il termine empatia è stato tradotto in passato soprattutto in ambito tedesco con la parola einfühlung, non senza lasciare però una certa insoddisfazione tra gli esperti. In quanto vi si andava a condensare più aspetti differenti del comune sentire. È stato soprattutto agli inizi del novecento, grazie al fondamentale contributo di Edmund Husserl e della sua allieva Edith Stein, oltre che alle pioneristiche ricerche antropologiche di Max Sheler che si è provato a fare luce e chiarezza sul significato di tale espressione, provando a eliminare il velo di aleatorietà e di indicibilità nel frattempo denunciato da più parti.
Sebbene i tre autori citati si muovono su ambiti interpretativi differenti, è possibile integrare i loro studi con le recenti ricerche neuropsicologiche attuali anticipate soprattutto da Sheler. In particolare nel tentativo di operare una schematizzazione plurilivellare della coscienza. I suoi studi hanno aperto la strada a tutte quelle concezioni antropologiche definite oggi embodiment cioè incarnate, nel tentativo di superare certo dualismo tra mente e corpo affermatosi all'interno del paradigma scientifico filosofico moderno.
Nello specifico Sheler riconosce tre livelli distinti di empatia (einfühlung).
Il primo definito come "unipatia (einsfühlung), può essere assimilato al contagio affettivo o anche a una risonza incarnata o a una percezione immediata precedente qualsiasi distinzione cosciente e razionale tra soggetto-oggetto, o meglio tra percezione interna di sé o esterna del mondo. È il livello basilare di partenza di certi studi etologici oltre che neurofisiologici come quelli sui neuroni specchio. Si tratta in breve più di un processo istintivo, affettivo dovuto a una risonanza del corpo in conseguenza di una stimolazione capace di alterarne l'equilibrio.
A seguire viene poi un livello quello propriamente empatico di condivisione (nachfühlung). È qui che inizia l'emergenza della percezione dell'altro non solo fisica ma anche psichica, cioè “rappresentazionale” cosciente, in grado di dare voce all'espressività, ovvero a tutte quelle intenzioni soggettive nascoste poste dietro la superficie del corpo. È questo il momento del riconoscimento e della divisone tra io e non-io, tra sé e alterità. In senso neurofisiologico è il momento della rappresentazione cosciente delle precedenti intuizioni ideoaffettive implicite. È questo il piano definito da Barthoz emulativo su cui si innestano i circuiti come sé di Damasio. Oltre che il piano cognitivo della Teoria della mente.
A partire da questo ulteriore livello si andrebbe a instaurare il successivo momento di simpatia, nel senso di con-sentire compartecipare insieme (mitgefühl). É solo da questo livello che si può parlare di un vero momento etico. Infatti l'attribuzione di valore e di posizionamento si andrebbe a realizzare attraverso un ulteriore lavoro associativo-integrativo di ri-rappresentazione cosciente avente lo scopo di ridefinire i valori in campo in funzione di aspettative non solo votate a una veloce risposta al presente ma aperte anche a una ulteriore progettualità futura.

giovedì 11 marzo 2010

2. Ambiente-mondo

Cosa accomuna l’apertura/chiusura al mondo della zecca di Uexküll, da quella, ad esempio, di un mammifero come l’uomo. Secondo Heidegger, ispirandosi al pensiero scientifico del suo tempo, la pietra è senza mondo (welt), l’animale è povero di mondo, l’uomo è formatore di mondo. Tale distinzione è la conseguenza di una antropologia in cui netta è la contrapposizione tra l’ambiente (umwelt) e mondo (welt), tra natura e cultura, tra l’animale e l’uomo. Oggi, pur continuando a mantenere tale dicotomia i confini non sono più così distinti come allora, piuttosto, relativizzata l’unicità dell’uomo rispetto alle altre varietà viventi, si va nella direzione di sfumare le due posizioni più verso il polo della natura e dell’animalità. Ritornando alla citazione heideggeriana, per gli scienziati biologi contemporanei, l’animale è soggetto a un cervello in cui forse predomina una chiusura operazionale e organizzazionale, cioè una prevalenza computazionale autoreferenziale determinata dalla sola finalità all’autoconservazione e alla sopravvivenza. Ciò non vuol dire che esso sia completamente schermato dal contesto (l’ambiente naturale) e si trovi in una situazione solipsistica assoluta. Infatti l’indice di apertura/chiusura di ogni sistema animale viene calcolato indicativamente dalla sua attivazione selettiva riflessa rispetto a degli specifici stimoli esterni o interni. Come la visione del cibo, la pulsione sessuale, un pericolo incombente e via dicendo. Heidegger, ne I concetti fondamentali della metafisica. Mondo, finitezza, solitudine, li avrebbe chiamati con il termine di disinibente, mentre l’effetto conseguente sull’animale con stordimento, assorbimento, per sottolinearne il suo totale coinvolgimento. Eppure, nell’animale la massima apertura va a coincidere con la massima chiusura verso ciò che lo sblocca. In quanto povero di mondo, esso non sembra essere auto-cosciente del suo disinibente e del contesto, e comunque non può confrontarsi attivamente con esso, almeno non più di tanto. Alla fine, può solo reagire nella forma pre-ordinata geneticamente di un semplice “comportamento” più o meno ripetitivo. Certo, a variare nell’uomo rispetto all’animale è l’entità del “filtro creativo” tra lo stimolo e la risposta. Cioè la sua apertura a una dimensione più o meno progettuale che lo rende capace, più del resto di tutti gli altri animali, di modificare tramite il proprio lavoro l’ambiente e di conseguenza anche le sue risposte a esso, costruendo delle “nicchie” di senso ad hoc, dei recinti simbolici e fisici allo stesso tempo iperstrutturati e ordinati. Infatti la condizione umana si caratterizza per l’essere stati gettati in una “contingenza illimitata”, in un caos originario dove la distinzione tra segnale e rumore non è stabilita una volta per tutte da programmi innati impliciti ma è in parte ridefinibile a seconda delle particolari esigenze accidentali. Anche se va detto, il filtro operato su tale rumore di fondo dipende in massima parte da vincoli congeniti predisponenti tale selezione a monte, cioè in modo implicito, pre-cosciente, pre-simbolico. Tali vincoli sono programmati naturalmente per la “riduzione” significativa del rumore e per la chiusura percettiva, cioè per la definizione di forme più o meno stabili e riconoscibili utilizzabili per la formazione di un mondo artificiale inventato ad hoc secondo le esigenze del momento. In ogni procedura decisionale è come se ogni volta si dovesse scommettere sulla sua natura, spesso però applicando dei parametri di valutazione affatto obiettivi, distorti dai propri desideri soggettivi o da una naturale incompletezza inferenziale. Eppure, tale lavoro dialettico di “dissociazione” e di ridonazione riduzionistica di senso, a un tempo strumento difensivo per antonomasia, può anche essere l’occasione per far emergere una dimensione massimamente creativa che si manifesta nella capacità di disseminare nuove nicchie isolate di mondo però all’interno di estese reti globali dove è comunque possibile la comunicazione e lo scambio. A cominciare dal piano individuale attraverso ad esempio la ristrutturazione psicologica per approdare fino alle più complesse forme di aggregazioni sociali e politiche. Allora, a ogni livello, in conseguenza dell’interazione sistemica tra individuo e società, proprio a partire dall’intersezione tra il lavoro di contenimento del caos interiore e di quello provocato dal rumore di fondo ambientale si potrebbe far sopravvenire la migliore situazione adattiva per il singolo e per la comunità allo stesso tempo, secondo la regola della complexity for noise. Sapendo però ogni volta di ballare pericolosamente sulla soglia limite del punto di catastrofe, di non ritorno. Infatti, l’uomo rimane sempre aperto ed esposto a qualcosa di imprevedibile, di inquietante e di perturbante mai del tutto contenibile. Un eccesso che, volente o nolente, lo trascende infinitamente e lo determina costitutivamente, nonostante provi a piegare tale forze a proprio vantaggio. A conti fatti, come per tutti gli altri animali, ciò che lo muove e lo attiva gli è comunque precluso, essendo in fin dei conti oltre la sua capacità di elaborazione finita. Così, l’essenziale residuale sembra essere continuare a vivere e a sentirsi vivi, affaccendati nei propri interessi e nel proprio circoscritto personale mondo organizzato e normalizzato. Sempre al limite tra la massima apertura possibile e la più efficace chiusura psicotica per ragioni naturalmente difensive e autoconservative. Insomma dibattendosi dispendiosamente nel tentativo di trovare un equilibrio dinamico quanto instabile tra i poli di eros/thanatos, divenire/essere, polemos/pace eterna. Così va la vita, nonostante tutto.

1. La zecca autistica di Uexküll

L’abitante della campagna che percorre spesso i boschi e la macchia accompagnato dal suo cane non può mancare di fare la conoscenza di una minuscola bestia che, sospesa a un ramoscello, aspetta la sua preda, uomo o animale, per lasciarsi cadere sulla sua vittima e abbeverarsi al suo sangue […] Al momento di uscire dall’uovo, essa non è ancora completamente formata: le mancano un paio di gambe e gli organi genitali. Ma è già capace, a questo stadio, di attaccare gli animali a sangue freddo, come la lucertola, appostandosi sulla punta di un filo d’erba. Dopo alcune mute successive, acquisisce gli organi che le mancano e può così dedicarsi alla caccia degli animali a sangue caldo. Quando la femmina viene fecondata, si arrampica con le sue otto zampe fino all’estremità di un ramoscello, per potersi lasciare cadere dalla giusta altezza sui piccoli mammiferi di passaggio o per farsi urtare dagli animali di taglia più grande. […] Questo animale è privo di occhi e trova il suo posto di agguato soltanto grazie alla sensibilità della sua pelle alla luce. Questo brigante di strada è completamente cieco e sordo e percepisce l’avvicinarsi della sua preda solo attraverso l’odorato. L’odore dell’acido butirrico, che emana dai follicoli sebacei di tutti i mammiferi, agisce su di esso come un segnale che lo spinge ad abbandonare il suo posto e a lasciarsi cadere alla cieca in direzione della preda. Se la buona sorte lo fa cadere su qualcosa di caldo (che percepisce grazie a un organo sensibile a una determinata temperatura), ciò significa che ha raggiunto il suo obiettivo, l’animale a sangue caldo, e allora non ha più bisogno che del suo senso tattile per trovare un posto il più possibile privo di peli e conficcarsi fino alla testa nel tessuto cutaneo dell’animale. Ora può succhiare lentamente un fiotto di sangue caldo (p. 86-7, Uexküll 1967, citato in Agamben 2002).