lunedì 15 marzo 2010

5. Buon senso

L’uomo come navigatore nella notte, per orientarsi, ha avuto bisogno di seguire le stelle fisse. Cioè di un sapere certo, epistemico, che lo sostenesse nel suo essere senza misura. Ma da tempo il cielo si è spento, non riflettendo più la luce degli astri. E il buio si è fatto ancora più buio. Eppure, anche senza attribuire più un senso di oggettività alle proprie rappresentazioni, alle proprie credenze, ai propri valori, alle proprie norme di vita, l’uomo non ha smesso di navigare. Il mondo come universo condiviso è tramontato e ha assunto sempre più quella forma nichilistica espressa già da Nietzsche come “fiaba” relativistica. Questo però non ha comportato affatto l’essere caduti nella totale mercè dell’imponderabile e dell’irrazionale. Nella notte del non sapere si è constatato di non essere ancora del tutto ciechi e ignoranti. Infatti, superato l’iniziale smarrimento si sono approntati nuovi strumenti di navigazione. Non potendo più fare affidamento su solide stampelle su cui poggiarsi, si è dovuto fare carico della responsabilità delle proprie decisioni. Ora spetta solo a lui rispondere agli eventi della vita e a tentare di regolamentare l’aleatorio. Ogni istante, percepito sempre più come unico e irripetibile, lo si prova a fronteggiare fiduciosamente affidandosi alla pur limitata dotazione di strumenti disponibili. Senza affatto misconoscere il loro carattere approssimativo foriero di un sapere sempre rivedibile, spesso insufficiente davanti ai dilemmi della vita, al caso e alla dissonanza cognitiva il più delle volte irrisolvibile costitutivamente. Però, non per questo in qualche modo aggirabile e sospendibile. Tale sapere, consapevole di essere figlio di una razionalità “debole”, va a rispondere a un modo di inferire conclusioni e decisioni sovrapponibile a quella “sapienza pratica” che gli antichi avevano definito phronesis, intimamente volta a cogliere la migliore opportunità possibile a partire dagli strumenti limitati a disposizione in un dato momento presente. Non senza espedienti (poros) e un pizzico di audacia e temerarietà. Insomma si dovrebbe arrivare a una “sofisticata abilità pratica incentrata su stratagemmi” occasionali, dettati più dall’informazione del caso che da modelli previsionali poco elastici. Certo, gli “schemi” di riferimento, da qualcuno definiti “modelli mentali” o anche “mappe cognitive”, non hanno più i crismi di un sapere completo da cui poter dedurre tutte le conseguenze in modo inconfutabile e prevedibile. Ma ci si affida più a un sapere induttivo quando non abduttivo, avvicinandosi alla razionalità strumentale della scienza. Un’induzione è, riprendendo il lessico filosofico, un giudizio sintetico. Il valore veritativo delle sue conclusioni non dipende solo da quello inferito formalmente dalle premesse iniziali, ma anche dall’esperienza, cioè dal contenuto, dalla semantica e dalla pragmatica, cioè dall’influenza del contesto. Nel pensiero induttivo, le conclusioni vanno oltre l’informazione data, ma, allo stesso tempo, escludono più possibilità di quante non escludano le premesse da cui derivano. Il pensiero abduttivo, che sta alla base del “problem solving”, è invece un particolare tipo di induzione più creativa, suppositiva, essendo maggiormente aperta all’interpretazione e all’insight, ma anche più incerta e spesso rischiosa. In tale forma inferenziale si deducono nuove cause non direttamente estrapolabili dalle premesse iniziali, ricavandole, per esempio, da circostanze simili oppure da analogie creative funzionali in quel particolare momento e così via. Infatti, quando vengono a mancare le informazioni di senso compiuto, la “verità” e la “realtà” vengono più emulate, cioè interpretate o spesso inventate verosimilmente a partire dalla personale esperienza. Nella realtà, a causa di una cronica, costitutiva incompletezza dell’informazione, agiamo di solito come se fossimo normalmente predisposti a una forma implicita di pensiero induttivo e ancor più abduttivo. Sapendo allo stesso tempo di essere spesso esposti al rischio di cadere vittime del cosiddetto “errore di conferma”. Infatti, nella pratica quotidiana sembra si cerchi di trarre conclusioni parsimoniose scegliendo fideisticamente solo quelle capaci di verificare positivamente le premesse. Cioè si producono conclusioni a partire da delle premesse magari le più probabili o semplicemente conosciute in precedenza (“euristica della rappresentatività e disponibilità”) o al limite perché intuite implicitamente, scartando di conseguenza tutto il resto. Ciò è agevolato anche dal fatto che quando ragioniamo siamo all’interno di uno sfondo sapienziale e di credenze generali più o meno condivise, le quali inevitabilmente vanno a modulare le nostre conclusioni. Ignorando però che l’omesso da tali strategie cognitive può essere a volte l’essenziale. Secondo questa prospettiva, la verità non emerge affatto come effetto residuale di tutte le falsificazioni possibili inferibili, come ci si aspetterebbe ad esempio da un meticoloso metodo induttivo “per eliminazione”. Ma solo dalle condizioni di possibilità e di esistenza, nel migliore delle ipotesi soltanto probabili in quanto precedentemente confermate. Contravvenendo alle regole di un empirismo negativo e scettico, si ripone più attenzione a una prevedibilità più retrospettiva che prospettica. Tale forma riduzionistica di pensiero induttivo è un ragionamento propositivo certamente economico, però altamente impreciso. Insomma “le conoscenze prevalgono sul principio di verità” (p. 240, Johnson-Laird 2008). Eppure, per molti, sembra essere la sola strada possibile per operare delle semplificazioni consistenti sulla massa preponderante di informazioni che ci provengono dall’esperienza. Pena il caos e l’intrattabilità dell’informazione. Comunque, non essendoci data la possibilità di trovare lungo il cammino la verità già bell’e fatta o comunque inferibile confidando sui soli strumenti logici, non possiamo far altro che affidarci ai contenuti semantici specifici, alla psicologia individuale, alle variabili soggettive, emozionali, motivazionali, contestuali, con lo scopo però di trovare nuove scorciatoie ancora più significative e funzionali. Così, per rimediare alle naturali distorsioni prospettiche dovute spesso all’influenza implicita dei propri desideri, delle proprie emozioni e del contesto bisogna predisporsi a saper sottoporre il proprio pensiero a una verifica empirica indiretta più esaustiva e rigorosa. In particolare per escludere almeno l'impossibile, lasciando comunque aperti tutti gli spettri di possibilità inferibili. Anche nel saper indovinare cause o prefigurare scenari inediti può esserci del metodo. Appoggiandosi a certa cultura del “sospetto”, potrebbe essere di aiuto prendere sempre più coscienza della propria cecità sia retrospettiva che previsionale, responsabile della cosiddetta “fallacia narrativa”. Innanzitutto sviluppando una adeguata “metacoscienza prospettica” basata sulla consapevolezza autoreferenziale di non sapere abbastanza. A partire da ciò, potrà seguire una serrata analisi critica delle proprie credenze su sé stessi, in particolare quelle inerenti le presunte abilità nel gestire l’imponderabile. Allora forse ci si potrà adoperare per arrivare a un sapere capace di compensare in parte la propria opacità epistemologica e la conseguente imperizia. Soltanto quando si smetterà di confidare fideisticamente sulle sole configurazioni mentali passate, ci si potrà concentrare empiricamente sulla realtà, dimostratasi nella sequenza cronologica dei singoli eventi unica e irripetibile, sottraendosi così alla morsa di una routine ottusa quanto irrealistica. Se si riconoscono i propri limiti cognitivi, ma ancor prima ontologici, dovrebbe risultare naturale approntare nuovi sistemi di indagine e di controllo magari non troppo costosi, così da rimanere sempre vigili. Innanzitutto allenandosi a gestire la sfaccettata complessità sommersa che ci costituisce dal profondo. Ridimensionando la propria “arroganza epistemica” a favore di un approccio più umile, si potrebbe pervenire a un ulteriore livello coscienziale capace in qualche modo di ottimizzare dall’“alto” la propria istintiva, pseudo-razionale “visione cieca”. Magari provando a perseguire un nuovo equilibrio tra i preponderanti processi impliciti (semi-)automatici e la limitata attenzione vigile di cui disponiamo. In questo caso, il pensiero abduttivo e più in generale induttivo, se adeguatamente esposto all’esperienza controfattuale, potrebbe essere ottimizzato e reso più efficace nel suo aspetto revisionale e di conseguenza previsionale. Unicamente a queste condizioni si può tentare di approntare velocemente nuove strategie inferenziali, un poco più costose, però in grado di operare velocemente una efficace ristrutturazione cognitiva capace di falsificare le precedenti credenze acquisite. Insomma è necessario essere conformi a dei criteri veritativi, ma è ancor più essenziale esporsi alla falsificazione. Solo così si può far fede a una più complessa e raffinata metodologia induttiva capace di formulare nuovi algoritmi riduzionistici includenti sempre più la variabile casuale, così da limitare il più possibile i rischi a essa connessa. Per esempio recuperando quel metodo per “esclusione” prima menzionato, oppure andando a sondare quelle possibilità meno prevedibili, intuitivamente scartate da tutti quei processi mnemonici impliciti, eppure in linea di principio possibili. Infatti, per quanto improbabile, la “verità” dovrà pur essere allo stesso tempo quello che resta di non ancora falsificato e/o di non ancora pensato e inventato.
Da un punto di vista etico, se la realtà ha perduto il suo valore di oggettività non può più essere considerata incondizionatamente normativa1. Un conto è la descrizione dei fatti, un altro è il ricavarne deduttivamente delle proposizioni valoriali. Dall’indicativo non si può più necessariamente passare all’imperativo e al dover essere condizionale. Anche in questo caso non siamo di fronte al buio totale. Infatti, di fronte all’emergenza dominante, ora è la regola a doversi adattare induttivamente e abduttivamente alla situazione del momento. In particolare, a essere cambiata è l’idea stessa di bene, non più soltanto definibile, nel suo valore deontologico e assiologico, secondo un modello di verità epistemico. Si potrà pure continuare a esprimere cognitivamente un’idea di cosa sia il bene, ma soltanto a partire da un ulteriore livello etico dinamico-pragmatico, dal quale confrontarsi anarchicamente ogni volta con l’eccesso della “vita nuda” nella sua eccezionalità. Confidando di trovare la misura giusta tra un mix di coerenza deontologica, sapere contestuale, consensuale e efficacia strumentale. Tra esperienza regressa e capacità adattiva presente all’ennesima potenza. Non senza incorrere nel rischio di essere tacciati da un osservatore esterno di incoerenza, dovendo rimanere in bilico tra metodologie epistemiche e non, tra teorie pseudo-realiste e dichiaratamente non realiste della verità. Infatti, all’interno di una concezione dinamica e politeistica dei valori, la verità non viene più considerata un valore oggettivo incondizionato e fondamentale rispetto ad altri, ma dovrà confrontarsi alla pari e a volte anche subordinarsi ad essi per il bene comune. Così, l’uomo della decisione razionale ipotetico-creativa insegue sempre la soluzione più propizia adattando volta per volta se stesso o la realtà secondo le circostanze, le possibilità e le forze in campo. Da vero stratega opportunista. Avendo appreso che basta un niente perché si scada nell’eccesso e nella dismisura o nel fuori luogo. A volte anche in modo irreversibile e irreparabile, senza ritorno. Ma non può esimersi di rischiare ogni volta tutto, confidando nella bontà del proprio corpo, del proprio istinto, in sé stessi, nel prossimo e nella cultura che lo ha preceduto. Però solo fino a un certo punto. Rimanendo vigile e guardingo, pronto a cambiare tattica al momento giusto, senza alcun rimpianto. Provando a calibrare il proprio agile sapere a seconda delle informazioni aggiuntive del momento. Spesso pur essendo consapevole di non poter subito giustificare razionalmente e cognitivamente le proprie decisioni e azioni. Nonostante il futuro non sia alla sua portata, non si è ancora consegnato del tutto all’irrazionalità assoluta del destino. Residualmente, esiste ancora una forma sotterranea, implicita di razionalità subliminale e diffusa, situata al limite tra soggetto e società civile, capace ancora di guidarlo in qualche modo, se allenata preventivamente a dovere, soprattutto nella creazione di recinti, di nicchie esistenziali dinamiche abitate da regole meno crudeli. Non accettando di essere in completa balia del caso, può così provare a costruire scenari alternativi meno nefasti, per quello che gli è concesso2. In particolare imparando a saper evitare ad arte l’incertezza assoluta negativa per quanto gli è possibile, esponendosi invece consapevolmente solo ai rischi dovuti a un’incertezza ancora ponderabile, foriera il più delle volte di piacevoli nuove opportunità. Secondo me, questo equilibrismo tra varie abilità e competenze procedurali, emozionali e cognitive acquisite sul campo, in parte sia implicitamente che esplicitamente, possono oggi definire l’idea di “buon senso”.
Come ultima analisi mi verrebbe da azzardare l’ipotesi che quanto detto finora potrebbe essere una delle possibili strade percorribili per ripositivizzare la nefasta chiusura autistica da più parti denunciata come trend sociale del nostro tempo postmoderno globalizzato. In particolare, attraverso l’abbattimento di quella “fortezza vuota” sostituita invece da agili difese selettive altamente adattive. Senza dover arrivare sistematicamente a demonizzare il caso tout court, ma provando piuttosto a farselo in qualche modo amico.

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