giovedì 11 marzo 2010

2. Ambiente-mondo

Cosa accomuna l’apertura/chiusura al mondo della zecca di Uexküll, da quella, ad esempio, di un mammifero come l’uomo. Secondo Heidegger, ispirandosi al pensiero scientifico del suo tempo, la pietra è senza mondo (welt), l’animale è povero di mondo, l’uomo è formatore di mondo. Tale distinzione è la conseguenza di una antropologia in cui netta è la contrapposizione tra l’ambiente (umwelt) e mondo (welt), tra natura e cultura, tra l’animale e l’uomo. Oggi, pur continuando a mantenere tale dicotomia i confini non sono più così distinti come allora, piuttosto, relativizzata l’unicità dell’uomo rispetto alle altre varietà viventi, si va nella direzione di sfumare le due posizioni più verso il polo della natura e dell’animalità. Ritornando alla citazione heideggeriana, per gli scienziati biologi contemporanei, l’animale è soggetto a un cervello in cui forse predomina una chiusura operazionale e organizzazionale, cioè una prevalenza computazionale autoreferenziale determinata dalla sola finalità all’autoconservazione e alla sopravvivenza. Ciò non vuol dire che esso sia completamente schermato dal contesto (l’ambiente naturale) e si trovi in una situazione solipsistica assoluta. Infatti l’indice di apertura/chiusura di ogni sistema animale viene calcolato indicativamente dalla sua attivazione selettiva riflessa rispetto a degli specifici stimoli esterni o interni. Come la visione del cibo, la pulsione sessuale, un pericolo incombente e via dicendo. Heidegger, ne I concetti fondamentali della metafisica. Mondo, finitezza, solitudine, li avrebbe chiamati con il termine di disinibente, mentre l’effetto conseguente sull’animale con stordimento, assorbimento, per sottolinearne il suo totale coinvolgimento. Eppure, nell’animale la massima apertura va a coincidere con la massima chiusura verso ciò che lo sblocca. In quanto povero di mondo, esso non sembra essere auto-cosciente del suo disinibente e del contesto, e comunque non può confrontarsi attivamente con esso, almeno non più di tanto. Alla fine, può solo reagire nella forma pre-ordinata geneticamente di un semplice “comportamento” più o meno ripetitivo. Certo, a variare nell’uomo rispetto all’animale è l’entità del “filtro creativo” tra lo stimolo e la risposta. Cioè la sua apertura a una dimensione più o meno progettuale che lo rende capace, più del resto di tutti gli altri animali, di modificare tramite il proprio lavoro l’ambiente e di conseguenza anche le sue risposte a esso, costruendo delle “nicchie” di senso ad hoc, dei recinti simbolici e fisici allo stesso tempo iperstrutturati e ordinati. Infatti la condizione umana si caratterizza per l’essere stati gettati in una “contingenza illimitata”, in un caos originario dove la distinzione tra segnale e rumore non è stabilita una volta per tutte da programmi innati impliciti ma è in parte ridefinibile a seconda delle particolari esigenze accidentali. Anche se va detto, il filtro operato su tale rumore di fondo dipende in massima parte da vincoli congeniti predisponenti tale selezione a monte, cioè in modo implicito, pre-cosciente, pre-simbolico. Tali vincoli sono programmati naturalmente per la “riduzione” significativa del rumore e per la chiusura percettiva, cioè per la definizione di forme più o meno stabili e riconoscibili utilizzabili per la formazione di un mondo artificiale inventato ad hoc secondo le esigenze del momento. In ogni procedura decisionale è come se ogni volta si dovesse scommettere sulla sua natura, spesso però applicando dei parametri di valutazione affatto obiettivi, distorti dai propri desideri soggettivi o da una naturale incompletezza inferenziale. Eppure, tale lavoro dialettico di “dissociazione” e di ridonazione riduzionistica di senso, a un tempo strumento difensivo per antonomasia, può anche essere l’occasione per far emergere una dimensione massimamente creativa che si manifesta nella capacità di disseminare nuove nicchie isolate di mondo però all’interno di estese reti globali dove è comunque possibile la comunicazione e lo scambio. A cominciare dal piano individuale attraverso ad esempio la ristrutturazione psicologica per approdare fino alle più complesse forme di aggregazioni sociali e politiche. Allora, a ogni livello, in conseguenza dell’interazione sistemica tra individuo e società, proprio a partire dall’intersezione tra il lavoro di contenimento del caos interiore e di quello provocato dal rumore di fondo ambientale si potrebbe far sopravvenire la migliore situazione adattiva per il singolo e per la comunità allo stesso tempo, secondo la regola della complexity for noise. Sapendo però ogni volta di ballare pericolosamente sulla soglia limite del punto di catastrofe, di non ritorno. Infatti, l’uomo rimane sempre aperto ed esposto a qualcosa di imprevedibile, di inquietante e di perturbante mai del tutto contenibile. Un eccesso che, volente o nolente, lo trascende infinitamente e lo determina costitutivamente, nonostante provi a piegare tale forze a proprio vantaggio. A conti fatti, come per tutti gli altri animali, ciò che lo muove e lo attiva gli è comunque precluso, essendo in fin dei conti oltre la sua capacità di elaborazione finita. Così, l’essenziale residuale sembra essere continuare a vivere e a sentirsi vivi, affaccendati nei propri interessi e nel proprio circoscritto personale mondo organizzato e normalizzato. Sempre al limite tra la massima apertura possibile e la più efficace chiusura psicotica per ragioni naturalmente difensive e autoconservative. Insomma dibattendosi dispendiosamente nel tentativo di trovare un equilibrio dinamico quanto instabile tra i poli di eros/thanatos, divenire/essere, polemos/pace eterna. Così va la vita, nonostante tutto.

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